Di Irene Bruno
Il 4 e il 5 aprile Piacenza accoglie sotto una pioggia battente che non da requie, le professioni sociosanitarie nel loro completo ventaglio. Per quale motivo l’arcobaleno è affascinante e incanta lo sguardo di chi lo scorge per primo e chiama il suo compagno perchè desidera che anche lui goda della stessa beatitudine? Perchè è composto da tanti colori. E solo il loro accostamento esalta l’insieme dando importanza l’uno all’altro. Analogamente nel socio-sanitario ogni singolo operatore (includo anche la componente sanitaria) non potrebbe trainare il pesante carro che è la quotidianità con i suoi occhioni che chiedono il nostro intervento, con i suoi imprevisti, con le sue sfide a migliorare senza sosta.
Il pomeriggio del 4 abbiamo riunito due figure che solitamente si gravitano intorno, interagiscono ma con polarità uguale. Da tutta la regione hanno portato esperienze diverse e interessanti con un comun denominatore: chi ci guarda e aspetta un nostro invito. Le esperienze illustrate: la stanza multisensoriale (Luca) con le sue luci e colori e suoni nei quali immergersi e farsi trasportare e rilassare. Il metodo Validation (Lucio e Valeria) che permette di “costruire” un ponte per raggiungere gli anziani là, dove sono e sono costretti a rimanere perchè hanno perso il cammino per tornare al presente. Il filmato (Federica) che inquadra gli anziani che ci smontano i nostri pregiudizi “voi credete che noi siamo finiti? Che non abbiamo più valore? Che la nostra giornata è una lagna?” E giù a far dolci recuperando vecchie ricette oppure a insegnare ai bimbi delle elementari come piantare semini perchè nasca il nuovo virgulto. La poesia nell’animazione (Ardente di Cura di Stefano) per riscoprire il perchè del nostro operato. Chiara dalla montagna mostra la gioia e la spensieratezza della sinergia bambino/ anziano. Gianni (ex-figlio di anziana residente) porta la sua chitarra nei Caffè Alzheimer con una riattivazione basata su canzoni d’epoca, e i ricordi riaffiorano.
Lo yoga della risata: affascinante strumento di espressione che stimola la produzione di sostanze naturali che il nostro corpo possiede ma non utilizza, rendendoci un po’ annoiati, apatici, arrendevoli e tristi, e invece questa “ginnastica” dello spirito è una panacea per molti mali: vi dirò che noi abbiamo goduto fino in fondo quei 15 minuti di divertimento puro e trascinante che ci ha lasciato accaldati, vivi e sorridenti. Grazie Letizia!
Quindi la Cena di Gala che ha rapito un angolo della impersonale e cementifera Fiera per regalarci un salone degno di un ricevimento di alta classe: tavoli rotondi vestiti con tovaglie immacolate a discesa totale, la bianca ceramica dei piatti completata da scintillanti calici e argentate pluriposate (l’imbarazzo del principiante.... Come mi sono sentita solidale con la dolce Vivian di Pretty Woman). Ma il tocco di classe lo hanno regalato i centrotavola: ampie ampolle di vetro trasparente, semicolme di acqua sulla quale galleggiavano biglie argentate con un movimento lento che seguiva l’impercettibie dondolio del tavolo accarezzato dalle braccia dei commensali impegnati nella piacevole arte del cibarsi e conversare. Rose rosse si affacciavano dal bordo della coppa elegantemente completate dal velo di sposa che porta refoli di vento anche ove il vento non c’è. A corona, sedie interamente ricoperte di raso bianco ove appoggiarsi e mollemente posare il mento sulla mano per dare maggiore enfasi all’ascolto del vicino di tavolo. Quindi la serata a teatro con una prima parte che fosse trait-d’union fra la giornata di formazione/ informazione molto tecnica e il concerto che sarebbe seguito.
La magia dei Qu.Em., dei quali la sottoscritta si onora indegnamente di farne parte con il cuore gonfio di orgoglio, che ci hanno mostrato come le tecniche, ove perfettamente apprese, possano trasformarsi in situazioni reali e vissute. Il titolo Improvvisazione ci trasporta in un’altra dimensione, ove il tragico reale passa attraverso il teatro e diventa situazione recitata, talmente veritiera che il cuore non può resistere e rialascia una lacrima che scorre fresca sulla guancia e scende fino a sottolineare la linea del mento. Una mano sale furtiva a raccogliere quella goccia di commozione, complice il buio, perchè non è fine piangere in pubblico, particolarmente per l’uomo, ci insegnano le regole di convenienza sociale. Quella lacrima, al contrario, dimostra che l’uomo è composto dall’ottanta per cento di acqua e dal cento per cento di emozioni, che in alcuni tratti di vita possono essere sopite, addormentate, nascoste, rimosse, rifiutate ma presto o tardi la nostra storia di vita viene a chiedere il conto. E a lei è difficile rifiutarsi e dei due casi l’uno: o il corpo costringe a prestare attenzione alle emozioni parlando il suo linguaggio fisico (quanti malanni nascono da contratture non risolte o negate) oppure la persona, questo splendido essere fatto di un’alchimia di elementi intrecciati su un ordito di consapevolezza e anima, si ferma, si mette in ascolto, si guarda dentro, probabilmente non si piace, dice a sè stesso “fin qui arrivo, oltre non ce la faccio”, guarda in faccia la demenza e la persona, la cara persona che ne è portatrice, e si rilassa. Ti prendo come sei, non lotto più contro di te per riaverti, ma cammino con te e prendo avidamente tutto ciò che tu mi puoi dare, senza pretendere di cambiarti. Ora sei così, come io ti vedo, ti sento, ti percepisco, ti tocco, ti annuso, con te assaporo questa sfaccettature che hai. Paolo nella scena finale, si siede di fronte a Francesca. Spegne il telefonino, sua coperta di Linus per scappare a gambe levate da questa sorella che si comporta in modo strano, che è esasperante, che lo fa imbestialire, che lo fa apposta, che non lo riconosce più. Spegne il cellulare, prende le mani di Francesca e la guarda. Non ha il coraggio di andare oltre, con questa estranea dalle imprevedibili reazioni. Ma almeno, dopo tanto tempo, è li, sta li, non fugge.
Allora miracolosamente, lentamente, arrivando da spazi lontani, giunge lo sguardo di Francesca che si ferma per un lungo attimo dal suo continuo affaccendarsi senza un senso ai nostri occhi, e alza i suoi occhi nei quali esiste uno spazio infinito senza luogo e senza tempo. Li alza gli occhi e i fissa in quelli di Paolo, muti, fermi. Il tempo si ferma. A quel punto, e solo a quel punto, la mano di Paolo si leva con timidezza, lentamente, ma questa volta inesorabilmente verso il capo di Francesca. La mano aperta si posta su quei capelli un po’ arruffati, vi indugia, trasmette calore e si riappropria di un affetto troppo a lungo mancato. Non sapremo mai cosa Francesca abbia compreso, ma abbiamo visto che non si è sottratta a quella carezza, anzi vi si è rifugiata come un cucciolo sotto il fianco caldo e morbido della mamma. E’ protezione, è fiducia. E’ amore.
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