Noi neghiamo il diritto di una parte della
specie di decidere per un’altra, o di un
individuo per un altro individuo, che cosa
sia e che cosa non sia la sua propria sfera.
La sfera propria di tutti gli esseri umani
è la più ampia e la più elevata che essi
sono in grado di raggiungere. In che cosa
essa consista non può essere appurato
senza una piena libertà di scelta.
Queste sopra riportate sono le parole di Harriet Taylor1, una donna di pensiero della seconda metà dell’Ottocento, che dedicò molti dei suoi sforzi alla difesa di una totale parità, eguaglianza e libertà di entrambi i sessi, godendo in merito della collaborazione dell’illustre filosofo, nonché suo marito, John Stuart Mill, che pure si impegnò a difendere la causa. Mi è sembrato opportuno riportare proprio queste righe, dal momento che mettono a fuoco alcuni concetti decisamente attualizzabili ed irrinunciabili per l’idea che mi accingo ad esporre. In primo luogo, è bene soffermarsi sul concetto di “sfera propria”, con il quale Taylor si riferisce alla sfera di attività professionali che possono essere o meno proprie di un determinato individuo.
John Stuart Mill e Harriet Taylor. |
In questo orizzonte di pensiero, si inserisce perfettamente anche la tesi della filosofa americana contemporanea Joan Tronto2, secondo la quale deve essere abbandonata l’idea per cui l’etica della cura è espressione di una moralità essenzialmente femminile e, di conseguenza, anche l’idea per cui esisterebbe una distinzione tra le caratteristiche morali del genere femminile e quelle del genere maschile, ovvero una specifica correlazione tra genere e moralità, che vedrebbe le donne come principali portatrici di valori legati alla cura, all’amore materno e alle relazioni umane in generale. E’ interessante come l’autrice si impegni anche a compiere una riflessione sui cambiamenti del pensiero morale a partire dal XVIII secolo fino ad oggi. Il suo discorso prende le mosse dalla filosofia morale dei pensatori illuministi scozzesi (Hutcheson, Hume e Smith), che metteva al centro i sentimenti morali e la “simpatia” (o “empatia”, intesa come capacità di partecipare alle emozioni ed ai sentimenti degli altri esseri umani) e che sarebbe stata rimpiazzata da una prospettiva morale – quella Kantiana3 – più consona alla grande trasformazione capitalistica, perché fondata ull’individuo, la sua razionalità, nonché sull’universalità e l’impersonalità della legge morale. Questa sarebbe così stata la causa sociale, politica e culturale che avrebbe portato i sentimenti morali ad essere relegati nella sfera privata e domestica e a divenire quindi appannaggio esclusivo delle donne, che in questa si trovavano recluse, non certo per libera scelta.
Dunque, di fronte ad un simile stato di cose, ciò che agli occhi di Tronto si pone come esigenza impellente è un ripensamento dell’etica in generale, che conduca tanto le donne quanto la
Joan Tronto.
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dimensione fondamentale della cura oltre i ristretti confini del mondo privato e domestico.
Ovvero, si presenta ora la necessità urgente di ripensare la cura come una pratica dotata di carattere pubblico e olistico, cioè capace di investire quasi ogni aspetto della vita quotidiana di qualunque essere umano, dal più giovane al più anziano, indipendentemente dal sesso ma anche dalla condizione sociale ed economica, sia che ne sia il portatore oppure il ricevente. Insomma, per dirla con Tronto...
La cura è una preoccupazione centrale della vita umana, [...] una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro "mondo" in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile.
Infatti, la vita di ognuno di noi è stata ed è quotidianamente resa possibile dalle attività di cura, a partire da quella più evidente di coloro che ci hanno allevato, cresciuto e nutrito quando eravamo infanti per arrivare alle più svariate occasioni di bisogno in cui ogni individuo nel corso della propria vita finisce inevitabilmente per trovarsi, e che certo ci causerebbero non pochi drammi se non potessimo godere della nostra condizione di esseri umani costantemente “interdipendenti”, cioè inseriti in un sistema di relazioni sociali di reciprocità, che mai si disattivano completamente. Per tanto, sarebbe più proficuo abbandonare quell’immagine di noi stessi come non-bisognosi, che tanto bene si adatta ai valori di cui la società occidentale è impregnata, quali il successo pubblico, la razionalità e l’autonomia, ma che troppo allontana la nostra “simpatia” , cioè la nostra partecipazione emotiva ai sentimenti e alla condizione di coloro che sono “veramente bisognosi”, perché troppo diversi e lontani dall’orizzonte in cui vorrebbero muoversi i nostri desideri e progetti quotidiani di individui che, illusoriamente, si reputano indipendenti.
Tirando le fila del nostro discorso, quindi, sembrano emergere alcuni elementi che non possono in alcun modo essere trascurati se si vuole davvero compiere quell’importante passo nella diffusione a livello pubblico di un’etica che veda al suo centro la cura, come aspetto fondamentale dell’esistenza umana e non come attività propria di gruppi socialmente svantaggiati, siano questi formati da donne o da qualunque altra categoria che risenta di discriminazioni di qualsiasi livello. Così, per prima cosa si deve riconoscere l’estrema equità profusa dal pensiero di Harriet Taylor, che chiede la libertà per ogni individuo di accedere a quell’attività professionale che meglio lo soddisfa e che maggiormente arricchisce la società (grazie alla prestazione da lui offerta), evitando di confinare la figura femminile nell’alveo domestico e di renderla perciò unica detentrice delle occupazioni di cura. Tuttavia, non è a questo punto che ci si deve fermare. Si deve invece compiere anche il passo successivo in questo cammino, facendosi accompagnare dalla profonda umanità di Joan Tronto, che ci ricorda quanto l’attività di cura sia una pratica che riguarda tutti noi e quanto l’“etica della cura” sia capace di metterci costantemente nella condizione di adottare il punto di vista di chi di essa ha bisogno, cioè di chi è in quel particolare momento diverso da noi, ma nell’essenza fondamentalmente uguale “poiché le persone sono talvolta autonome, talvolta dipendenti”. In ultima analisi, la capacità di non perdere mai di vista questo concetto di fondo, oltre a portare con sé il necessario rispetto di coloro che si occupano di fornire cura (tendenzialmente invece relegati ai margini della società), riesce a porre anche le premesse per un corretto esercizio della pratica di cura, che deve essere tutta incentrata sull’ascolto dell’esigenza reale che il bisognoso sinceramente esprime, e non sull’atteggiamento paternalistico talvolta proprio di chi presta cura, che si vorrebbe più capace del destinatario di valutare il suo stesso bisogno, dando origine così inevitabilmente ad una condizione di diseguaglianza, infruttuosa per entrambi.
NOTE
1 - J.S. MILL E HARRIET TAYLOR, Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile, N. Urbinati (a cura di), Einaudi, Torino 2008, p. 44.
2 - Esperta in studi di genere e femminismo di fama internazionale, insegna Scienze politiche all’Hunter College della City University di New York, che le ha conferito un premio al merito per l’insegnamento nel 1991. Espone queste idee nel suo libro intitolato Confini morali, un argomento politico per l’etica della cura.
3 - La prospettiva morale di Kant si fonda essenzialmente sull’idea che l’etica sia costituita da principi validi universalmente per tutti gli esseri umani, la cui universalità si fonda appunto sulla comune essenza razionale che tutti noi condividiamo. Ben poco posto, all’interno del discorso morale, è dunque lasciato ai sentimenti e alle situazioni di vita concreta e particolare, che tenderebbe invece ad inficiare la razionalità e universalità della scelta morale, cioè la sua correttezza per la realizzazione di ciò che è giusto.
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