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domenica 6 luglio 2014

L'atteggiamento nel'atto di cura - Parte 1/2

Di Dina Bonicelli e Roberta Borsari.

La crescita vistosa dei bisogni di “cure” e di “care” connessi alle varie forme di fragilità ci ha spinto a vagliare approcci metodologici che si fondano sulla multidisciplinarietà, sulla risoluzione dei problemi umani: dall’universale al particolare, dalla teoria alla pratica, dall’astrazione al contesto, dalla certezza assoluta alla tolleranza dell’incertezza, dall’omologazione alla molteplicità/differenziazione, in questo quadro fatto di persone, problemi, conoscenze scientifiche e processi di cura che si pone la necessità della centralità del lavoro di equipema anche le difficoltà che a vari livelli si incontrano in questo processo. Il lavoro di cura diventa una sorta di “crocicchio” epistemologico, ovvero uno spazio conoscitivo da cui originano domande di metodo e di contenuto ed in cui si colloca l’incontro con l’anziano ai fini della cura possibile.


Via 808MAGIC su Flickr.


Allargare le visioni e le menti è un processo basilare nel nostro campo, per non ridurci a vedere il mondo attraverso buchi della serratura che limitano l’osservazione e le conseguenti scelte lasciandoci affezionati a spiegazioni storicamente semplici. La capacità di adattare i servizi ai bisogni degli anziani e del personale, individualizzando gli interventi su un piano multidisciplinare implica flessibilità organizzativa. Questo significa porre attenzione alle caratteristiche individuali e alle peculiarità dei bisogni espressi. L’ascolto e l’accoglienza degli anziani deve andare di pari passo con l’ascolto dei singoli operatori per diventare funzionale al benessere dell’intero servizio. La responsabilità del lavoro svolto e l’attenzione e la cura adoperate sono maggiori se la persona si sente parte attiva della programmazione di obiettivi e di interventi. La mancata esplicitazione di progetti priva la struttura dell’apporto creativo e attivo di ogni operatore.

L’affermazione iniziale da compiere riguardo alla relazione è il suo ruolo strutturale all’atto di cura; non si tratta di un aspetto facoltativo, che può essere o meno messo in atto, a seconda del “buon cuore” della persona. È strutturale e irrinunciabile, perché non c’è cura, per quanto moderna e raffinata, che diventi efficace al di fuori di un intenso rapporto di comunicazione. Questo è il punto centrale perché le tecniche specifiche riguardanti le tematiche, gli atteggiamenti del corpo, le modalità di ascolto e di risposta, servono a ben poco se non sono inserite in una logica che dichiara il rapporto come aspetto primario, che può essere attuato con le più diverse tecniche, ma che è sempre indispensabile. Nessuna motivazione autorizza ad una mancata relazione. Ciò induce a porsi come obiettivo primario il dovere dell’ascolto, del dialogo, della vicinanza empatica, qualunque siano le condizioni del lavoro, i limiti oggettivi e soggettivi, personali, dell’equipe, di un determinato servizio.


Da questo punto di vista è importante che l’insegnamento sia parte integrante della prestazione di cura, fatta di atti tecnici il cui veicolo è la relazione. Senza di questa vi è inoltre il rischio che si espanda un interventismo che soffoca l’anziano che non viene ascoltato, ma invaso di interventi. La relazione porta come conseguenza anche l’accompagnare l’anziano a decidere il livello di autonomia che vuole conservare rispetto alle decisioni riguardanti le cure. L’operatore educato a costruire un rapporto intenso saprà cogliere il significato della scelta dell’anziano, sia quella di una autonomia assoluta, sia quella di una delega assoluta, senza sentirsi colpito e offeso. Inoltre conserverà la capacità di essere vicino in ogni circostanza al suo anziano, avendone compreso il bisogno di non essere lasciato solo in un momento così cruciale dell’esistenza. La scelta di accompagnare in ogni circostanza, dà all’operatore forza e sicurezza, perché la sua risposta non è condizionata da circostanze effimere, ma dal dovere indiscutibile di entrare in relazione di aiuto con chi ha bisogno.

Maggiori conoscenze sulla persona invitano a relazioni più intense, perché più si è vicini alla comprensione della persona e del suo stato psicofisico, più si comprende che la cura passa attraverso le mani, gli occhi, le orecchie, la parola di chi opera. È importantissimo che l’operatore non viva come marginalità questo atto, ma che sia rinforzato in una visione che gli trasmette l’importanza della relazione per l’efficacia del suo intervento e quindi anche per la soddisfazione che ne può trarre.



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